Dieci giri del vecchio millennio

Nello sport, ci sono leggende che è bello incontrare se capissi che il senso delle cose è il cammino. E le moviole. Le chiacchiere, “i processi” sono solo intoppi. Mai viceversa… Dieci giri, un secolo e una storia: quella dell'Italia

Piccolino, tracagnotto, stare da contadino. Così è la foto del vincitore del Giro 1910.
Carlo Galetti nacque a Corsico, non ancora dormitorio metropolitano bensì campo di pane di una Milano non più ottocento.
La classifica del Giro allora non la facevano i tempi. Vincere era questione di punti, piazzamenti, astuzie. E lui, il Carletto, con i conticini ci andava a nozze, impressi di una furbizia tipicamente campagnola. Il giro del 1910 (e poi quello del 1911)  li conquistò così. Senza imprese, con l’arguzia dei Bertoldo.
Le foto dei suoi avversari, erano sagome diverse: baffi lunghi e affilati, sguardi fieri, mai solcati da dubbio. Petti protesi, per cui ogni terra doveva essere un popolo sottomesso per un qualche impero. Maledette illusioni da ballo Excelsior,  sottane che si alzavano al ritmo dell’ottimismo. Operai ed imperatori. Esploratori e contadini. Fame e sfruttamento. Bisogno di pane e sete di acciaio. Frullato idiota, stupido treno diretto ai 30 milioni di morti, ultima stazione  dell’assurdo can can…
1920. Il vincitore del Giro fu soprannominato “eterno secondo” ma subalterno non lo fu mai
Da bambino, Tano Belloni da Pantigliate lasciò l’indice della mano destra  in una macchina per finimenti. Non poteva usare un fucile, di conseguenza non fu partente nell’inutile strage 15/18.
Non aveva nulla da farsi perdonare, eppure Tano volle lo stesso fare della vittoria della penultima tappa del giro 1920, a Trieste, qualcosa di epico. Si attraversava il carso e le bici accarezzavano di polvere i prigionieri austroungarici impegnati  a raccogliere ciò che restava di una gioventù mai stata. Quel giorno Belloni arrivò da solo, in silenzio, incurante dell’entusiasmo della città liberata.
Gaetano con il fascismo c’entrò poco. Grande pistard, d’inverno macinò soldi e dollari nei velodromi d’America. Poi quando tornava in Italia si prestava al solito eterno gioco delle parti con Girardengo. “Anca stavolta l’è rivà prima lù” borbottò nel 1978, al funerale del rivale da sempre amico.
Giro 1930. Rude cimento dell’Italia guerriera. Esercito posticcio, commesse taroccate, strategie sbagliate, generali incapaci dell’Italia trombona. In linea con questa efficienza il Belpaese in camicia nera paga il più forte (Binda) perché stia a casa, e fabbrica un vuoto a perdere: il vincitore più giovane del Giro, Luigi Marchisio, vittima inconsapevole e inconsistente. Corridore senza materia, quanto le minacce al mondo urlate da Piazza Venezia.
1940. “Popolo italiano corri alle armi!”. Anche un giovinetto, in quell’anno, si era messo a correre. Eccome, se correva… Orio Vergani: “Un ragazzo segaligno, magro come un osso di prosciutto di montagna, ha vinto la Firenze-Modena attraversando l’Appennino sotto la pioggia diluviale e arrivando al traguardo con oltre quattro minuti di vantaggio. Arruolato nella squadra di Bartali come modesto aiutante, la recluta Fausto Coppi ha conquistato la maglia rosa. I megafoni che dall’automobile della sua fabbrica dicevano fino a ieri “Forza Gino, dai Gino”, hanno cambiato canzone”. Ripercorrete la storia d’Italia, e a condire ogni salto di qualità ci trovate gli ingredienti del Giro 1940. Un genio che non ha paura degli altri (fu Bartali che scelse il ragazzino di Castellania per la sua squadra). Una fortuna. antitesi di una sfortuna. (La caduta di Ginettaccio sulla Scoffera che lo mise fuori gioco). E una grandezza che parla solo con i fatti (Fausto Coppi, enorme e silenzioso).
Giro 1950. Italia…adesso sì nazione vera. Paese povero ma bello che non ha paura di nessuno, neanche dal primo vincitore straniero del Giro che solca l’asfalto industriale della penisola “nuova”: Hugo Koblet. Svizzero. Aitante. Atleta dei tempi nuovi. Vinceva. E viveva. Soggetto di una trama involuta. Anticipatore di modi che troverà la fine dentro un’auto simile alla parola suicidio. Nel 1950 l’Italia vide trionfare lo svizzero biondo ma non gli diede troppo peso. Il popolo “italiano” era impegnato a “mostrare la sua forza, la sua tenacia, il suo valore”, altro  che le fanfaronate militaresche del giugno1940…
Giro 1960. Vince l’Anquetil magnifique già raccontato su queste pagine, ma a pesare su quei giorni è il modo brusco d’allontanarsi di Fausto, dentro un gennaio freddo e nebbioso.
L’airone chiude le ali lasciandosi dietro due famiglie divise, e nel ciclismo un probabile erede, tale Venturelli che senza la sua guida è storia che svanisce come impronte sulla sabbia. Quell’erede mancato è un’altra vicenda di sport che anticipa un tratto della Storia grande: lo stop alla seconda generazione. Una vicenda di padri che costruendo avevano vinto. E di figli che distruggendo, perderanno.
1970 “La bellezza dei vent’anni è poter ridere in faccia a chi pretende di insegnarti l’avvenire…” dice Jannacci. Già, ma se i ventenni d’improvviso smettessero di ridere? Gioventù chiamata sessantotto che ad un certo punto si prese troppo sul serio. Dell’immaginazione, rimase solo il potere operaio, dove si voleva andare?
Anche il Giro 1970 lo vinse un pensiero unico. Ideologia che si chiamava Merckx, il cannibale. Vinceva, stravinceva, uccideva le corse. Vinceva, stravinceva, ma non divertiva. Non appassionava. Non inventava. Mai che da Eddy nascesse un sogno, una bellezza asimmetrica, una vaghezza artistica, una poesia. Nulla da raccontare per questo Giro vintage. Neanche l’idea romantica di arrivare secondi, un gioco di luci e ombre. E sì che era fiammingo…
Giro 1980 Il pensiero unico diventato paura, e poi confusione. Come uno scalatore prima di una volata l’Italia ha smesso le prime posizioni del gruppo, resta solo da barcamenarsi. Nel 1980 viene a menare il Giro un bretone, uno tosto.
Bernard Hinault ha un pugno pesante e una testardaggine che gli altri non hanno, esattamente come l’economia globale ha preso un menare che l’Italia non riesce a seguire. Ci sarebbero voluti poeti, capaci di disegnare nuove vie. Vennero a galla solo i contabili. O furbetti che bevevano assai...
Nel ciclismo il ragioniere era Vladimiro Panizza, un posto in banca da fattorino, che contro Bernard  tenta di salvare l’onore dell’Italia. Potè nulla, ma tante grazie ci sia stato. In Italia come al solito quando c’è da rischiare resta solo l’eroismo dei piccoli. Nel paese dei Badoglio, non è una novità…
1990. Povera bel paese. Nazione di grandi poeti, caduta in mano a qualche commercialista disonesto. In quegli anni, di artista sui pedali, ce ne fu uno grande: Gianni Bugno. Avrebbe potuto darci storie immense. Purtroppo era un sognatore, non un pescecane. Un poeta che sui fogli bianchi avrebbe saputo scrivere cose nuove e geniali ma non trovò nessuno capace di farne successo editoriale. Il Giro del 1990 Gianni lo vinse alla grande. Poi si trovò in mano una guida sbagliata. Troppi numeri. Matematica che lo portò a paragonarsi alla TAV Indurain. Bugno perse l’identità di fuoriclasse che coi numeri c’entrava niente. Diventò cifra dentro un elenco.
Vinse due mondiali, una coppa del mondo, una Sanremo e molto altro, davvero nulla rispetto a ciò che avrebbe potuto darci.
Poi il 2000. Il millennio nuovo. Avevano cominciato con storie color seppia, immagini sfocate. Quella che chiude è una fotografia digitale, ma la sostanza non cambia. Si tratta sempre di fatiche. Dolore. Arte. E miti.
I pixel  del nuovo millennio riproducono 4 corridori in fuga.
Quello davanti è senza capelli. Appesantito, agonisticamente già finito. Sta insegnando il passo al giovane non-campione che avrebbe vinto il giro. L’istantanea coglie Marco in piedi sui pedali, mentre guarda indietro stupito dei metri che una accelerazione ha messo tra lui e gli altri. Lui sa che non riesce più ad andare come prima. E’ la roba bianca che da un po’ gli sta girando la vita. Si guarda dietro interrogativo, sorpreso, come a dire: non sto mica andando così forte da staccare qualcuno… Lo stupore di Marco finì esattamente con quella pedalata. Poi, tutto divenne indifferenza.
Un po’ come l’Italia sportiva, e non,  dopo la svolta del millennio. Nessuno che voglia stupirsi. O indignarsi.  Nessun mito. Nessuna leggenda. Nessuna arte.
Nulla.
Peccato…