Troppi soldi alle donne? King: la tennista che creò l'uguaglianza
La provocazione è venuta dal direttore di Indian Wells che ha dichiarato che le tenniste vivono sulle spalle dei maschi. Gli States, proprio dove cominciò la lotta per l'uguaglianza tra i sessi. Ecco la storia di Billy Jean King, la donna che la conquistò.

Prima di lei i diritti e la concezione dello sport erano divisi per sessi. Dopo di lei, tutto cambiò. Billy Jean seppe portare le grandi rivoluzioni della sua epoca dove sembrava impensabile, sulla terra rossa dei circoli esclusivi.
La genealogia di Billy Jean King è di quelle solide e toste, che fanno america. Padre vigile del fuoco, madre casalinga, tipici esemplari anni cinquanta di borghesia statunitense. Billy nasce a Long Beach, California, una lunga spiaggia e un patchwork di case sempre linde popolate da casalinghe sorridenti e dal sogno dell’ultima lavatrice messa sul mercato. Un paradiso apparente, pronto a eccitarsi davanti a commedie maliziose in cui Rock Hudson incarna l’ideale di puro maschio americano. Una vita di menzogne sottili che reggono vite apparentemente solide, una società pronta a difendere se’ stessa con le bombe atomiche messe appena fuori dal giardino di casa. La genealogia di Billy Jean deve essere anche buona trasmettitrice di qualche gene sportivo perchè sia lei che il fratello si dimostreranno, fin da ragazzini, atleti di eccellente livello. Come viene naturale ad un bambino giocare nel giardinetto di casa, incominceranno assieme a far sport. Lanciarsi palle uno di fronte all’altra, senza che la femminuccia (in gonnella e calzettoni, come dovevano vestirsi le brave bambine americane) si sentisse, nella sostanza, diversa dal fratello. Una palla, una mazza e un guantone, lo sport più “etnico” della maniera americana. Ma, fin da subito, la bambina Billy Jean si accorse che nello sport la differenza fra uomo e donna non stava solo nel vestire ma era più di sostanza. Se sei maschio, lo sport che pratichi lo puoi chiamare baseball. Se sei femmina no, non solo non puoi condividerlo granchè con compagne di scuola che ti guardano come un’aliena, ma devi anche cambiarne il nome perché, per le donne, si chiama softball. Una differenziazione che cozzò con il carattere ribelle di quella ragazzina piccola e tracagnotta tanto che, anche se era ritenuta una “promessa”, ai tempi del college decide di mollare mazza e guantone per passare ad uno sport individuale dove se sai vincere sei tu che decidi come chiamare le cose. Una scelta di cambiamento radicale che rivela il senso caparbio di ostinazione di Billie Jean King. Il tennis. Una rete, che ti divide da un avversario e tu, sola artefice del successo. Sta a te vincere, chiunque tu abbia di fronte: una donna, un uomo, una convenzione o una società.
Per la terra rossa statunitense Billy Jean fu subito novità travolgente. Un’atleta piccola ma veloce, aggressiva, che giocava con una forza maschia, quella maniera che le tenniste fino ad allora non avevano neppure immaginato di potersi permettere. La sua forza travolgeva ogni cosa, dentro e fuori dal campo. Anche tutto quello che odiava dello sport. Le convenzioni. Il dover per forza mettere una gonnellina, quella tendenza a non scomporsi, la diversità che veniva imposta a chi, semplicemente, era donna. La carriera agonistica di Billy Jean King fu clamorosa, vinse tutto, per testimoniare la sua importanza nello sport statunitense (e di conseguenza mondiale) basti dire che nel 1972 fu il primo tennista (uomo o donna) ad essere nominato sportivo dell’anno da Sport Illustrated. Ma non è la carriera agonistica di Billy Jean King che vorremmo dipingere, ci piacerebbe invece descrivere la parabola umana e ideale di Billy Jean Moffitt. Moffitt. Il nome della sua famiglia. Perché siamo qui a parlare di genealogie, che alla fine è solo trovare quello che della generazione prima rimane a quella dopo, che sia una dote, un tratto fisico o una conquista.
“Ho sempre creduto che compito delle generazioni precedenti sia quello di aiutare a far crescere i diritti della generazione successiva”. Jean Moffitt, dice così. Lei ci è riuscita, eccome se ci è riuscita. Quando cominciò a giocare a tennis, gli uomini avevano un circuito professionistico, le donne no. Per quanto vincesse, per quanto fossero colme le tribune, una giocatrice di tennis era semplicemente pagata come istruttrice. Qualche decina di dollari al giorno. Quando invece Billy Jean King tirò l’ultimo rovescio della sua carriera, grazie alle battaglie che aveva condotto spesso da sola contro tutto e tutti, le donne avevano il loro circuito professionistico, godevano di gettoni, premi e sponsor più o meno grossi quanto quelli maschili, e soprattutto, il mondo aveva imparato a considerarle atlete e a scriverne le gesta con un rispetto del tutto simile a quello per i maschi.
Il bisogno di Billie Jean non fu unicamente quello di essere campionessa, ma di divenirlo in un contesto sociale che avesse la cultura per ritenerla pienamente tale, al di fuori del suo sesso. Per ottenerla, dovette accettare di tutto. Essere sbeffeggiata, insultata, e anche, alla fine, passare tra le forche caudine di una sfida simbolica, un po’ agonismo e un po’ circo. Fu quella che venne definita “la sfida fra i sessi”, sotto le telecamere commerciali dell’America e l’attenzione televisiva di tutto il mondo. In quella sfida dall’altra parte della rete c’era Bobby Riggs, un ex campione che grazie alla strafottenza nei confronti dell’altro sesso era diventato l’emblema della mascolinità e la prova dell’inferiorità femminile.
La prima “Sfida fra i sessi” era stata, per le donne, impietosa. Riggs aveva sconfitto Margaret Court 6-1 6-2. Una vittoria schiacciante per l’uomo, strombazzata come la prova definitiva della superiorità maschile. In realtà, Margaret era già sconfitta prima di scendere in campo, perché aveva scelto di giocare come gli uomini volevano una donna giocasse. Billy Jean capì che dopo la sconfitta della sua collega nella lotta per l’uguaglianza tutto diventava più difficile. “Avevo rifiutato già una volta la partita con Riggs, perché mi sembrava una buffonata, ma a quel punto non potevo tirarmi indietro. C’era in gioco tutto quello che il movimento tennistico femminile aveva conquistato negli ultimi anni.”
La genealogia di Billy Jean King è di quelle solide e toste, che fanno america. Padre vigile del fuoco, madre casalinga, tipici esemplari anni cinquanta di borghesia statunitense. Billy nasce a Long Beach, California, una lunga spiaggia e un patchwork di case sempre linde popolate da casalinghe sorridenti e dal sogno dell’ultima lavatrice messa sul mercato. Un paradiso apparente, pronto a eccitarsi davanti a commedie maliziose in cui Rock Hudson incarna l’ideale di puro maschio americano. Una vita di menzogne sottili che reggono vite apparentemente solide, una società pronta a difendere se’ stessa con le bombe atomiche messe appena fuori dal giardino di casa. La genealogia di Billy Jean deve essere anche buona trasmettitrice di qualche gene sportivo perchè sia lei che il fratello si dimostreranno, fin da ragazzini, atleti di eccellente livello. Come viene naturale ad un bambino giocare nel giardinetto di casa, incominceranno assieme a far sport. Lanciarsi palle uno di fronte all’altra, senza che la femminuccia (in gonnella e calzettoni, come dovevano vestirsi le brave bambine americane) si sentisse, nella sostanza, diversa dal fratello. Una palla, una mazza e un guantone, lo sport più “etnico” della maniera americana. Ma, fin da subito, la bambina Billy Jean si accorse che nello sport la differenza fra uomo e donna non stava solo nel vestire ma era più di sostanza. Se sei maschio, lo sport che pratichi lo puoi chiamare baseball. Se sei femmina no, non solo non puoi condividerlo granchè con compagne di scuola che ti guardano come un’aliena, ma devi anche cambiarne il nome perché, per le donne, si chiama softball. Una differenziazione che cozzò con il carattere ribelle di quella ragazzina piccola e tracagnotta tanto che, anche se era ritenuta una “promessa”, ai tempi del college decide di mollare mazza e guantone per passare ad uno sport individuale dove se sai vincere sei tu che decidi come chiamare le cose. Una scelta di cambiamento radicale che rivela il senso caparbio di ostinazione di Billie Jean King. Il tennis. Una rete, che ti divide da un avversario e tu, sola artefice del successo. Sta a te vincere, chiunque tu abbia di fronte: una donna, un uomo, una convenzione o una società.
Per la terra rossa statunitense Billy Jean fu subito novità travolgente. Un’atleta piccola ma veloce, aggressiva, che giocava con una forza maschia, quella maniera che le tenniste fino ad allora non avevano neppure immaginato di potersi permettere. La sua forza travolgeva ogni cosa, dentro e fuori dal campo. Anche tutto quello che odiava dello sport. Le convenzioni. Il dover per forza mettere una gonnellina, quella tendenza a non scomporsi, la diversità che veniva imposta a chi, semplicemente, era donna. La carriera agonistica di Billy Jean King fu clamorosa, vinse tutto, per testimoniare la sua importanza nello sport statunitense (e di conseguenza mondiale) basti dire che nel 1972 fu il primo tennista (uomo o donna) ad essere nominato sportivo dell’anno da Sport Illustrated. Ma non è la carriera agonistica di Billy Jean King che vorremmo dipingere, ci piacerebbe invece descrivere la parabola umana e ideale di Billy Jean Moffitt. Moffitt. Il nome della sua famiglia. Perché siamo qui a parlare di genealogie, che alla fine è solo trovare quello che della generazione prima rimane a quella dopo, che sia una dote, un tratto fisico o una conquista.
“Ho sempre creduto che compito delle generazioni precedenti sia quello di aiutare a far crescere i diritti della generazione successiva”. Jean Moffitt, dice così. Lei ci è riuscita, eccome se ci è riuscita. Quando cominciò a giocare a tennis, gli uomini avevano un circuito professionistico, le donne no. Per quanto vincesse, per quanto fossero colme le tribune, una giocatrice di tennis era semplicemente pagata come istruttrice. Qualche decina di dollari al giorno. Quando invece Billy Jean King tirò l’ultimo rovescio della sua carriera, grazie alle battaglie che aveva condotto spesso da sola contro tutto e tutti, le donne avevano il loro circuito professionistico, godevano di gettoni, premi e sponsor più o meno grossi quanto quelli maschili, e soprattutto, il mondo aveva imparato a considerarle atlete e a scriverne le gesta con un rispetto del tutto simile a quello per i maschi.
Il bisogno di Billie Jean non fu unicamente quello di essere campionessa, ma di divenirlo in un contesto sociale che avesse la cultura per ritenerla pienamente tale, al di fuori del suo sesso. Per ottenerla, dovette accettare di tutto. Essere sbeffeggiata, insultata, e anche, alla fine, passare tra le forche caudine di una sfida simbolica, un po’ agonismo e un po’ circo. Fu quella che venne definita “la sfida fra i sessi”, sotto le telecamere commerciali dell’America e l’attenzione televisiva di tutto il mondo. In quella sfida dall’altra parte della rete c’era Bobby Riggs, un ex campione che grazie alla strafottenza nei confronti dell’altro sesso era diventato l’emblema della mascolinità e la prova dell’inferiorità femminile.
La prima “Sfida fra i sessi” era stata, per le donne, impietosa. Riggs aveva sconfitto Margaret Court 6-1 6-2. Una vittoria schiacciante per l’uomo, strombazzata come la prova definitiva della superiorità maschile. In realtà, Margaret era già sconfitta prima di scendere in campo, perché aveva scelto di giocare come gli uomini volevano una donna giocasse. Billy Jean capì che dopo la sconfitta della sua collega nella lotta per l’uguaglianza tutto diventava più difficile. “Avevo rifiutato già una volta la partita con Riggs, perché mi sembrava una buffonata, ma a quel punto non potevo tirarmi indietro. C’era in gioco tutto quello che il movimento tennistico femminile aveva conquistato negli ultimi anni.”

6-4 6-3 6-3. La King trionfò. Lo
fece perché era mentalmente scesa in campo alla pari. Solo per vincere.
Già, vincere, che dall’altra parte ci fosse una donna, un uomo, una
convenzione o una società, questa era la tattica di Billy Jean Moffitt.
Lottare contro le convenzioni, per cambiare.
E non solo nello sport. A metà degli anni settanta, dopo un matrimonio, un aborto, una separazione dal marito (King) Billy Jean scelse la convivenza con la donna che le faceva da assistente. Fu anche questa una scelta coraggiosa, sputata in faccia alla America bigotta e bugiarda “pronta a divertirsi e un po’ eccitarsi davanti alle commedie maliziose in cui Rock Hudson incarnava l’ideale del maschio americano”. Avevo sconfitto il maschilismo nel tennis, ci misi di più a battere i freni che un contesto familiare conservatore avevano imposto alla mia sessualità”. In quella vittoria, però, non fu sola. La aiutarono gli anni settanta, quelli della generazione dopo di lei, quelli che grazie anche alla sua lotta, almeno negli strati più avanzati, avevano guadagnato il rispetto di ogni differenza.
E non solo nello sport. A metà degli anni settanta, dopo un matrimonio, un aborto, una separazione dal marito (King) Billy Jean scelse la convivenza con la donna che le faceva da assistente. Fu anche questa una scelta coraggiosa, sputata in faccia alla America bigotta e bugiarda “pronta a divertirsi e un po’ eccitarsi davanti alle commedie maliziose in cui Rock Hudson incarnava l’ideale del maschio americano”. Avevo sconfitto il maschilismo nel tennis, ci misi di più a battere i freni che un contesto familiare conservatore avevano imposto alla mia sessualità”. In quella vittoria, però, non fu sola. La aiutarono gli anni settanta, quelli della generazione dopo di lei, quelli che grazie anche alla sua lotta, almeno negli strati più avanzati, avevano guadagnato il rispetto di ogni differenza.