Giro 1988: gelo attorno ai pedali

La Parigi-Nizza 2016, Mont Brouilly e la neve di marzo hanno dimostrato che il ciclismo è ancora eroico, a differenza di tanti altri sport, ormai eternamente in pantofole. E’ l’occasione giusta per un ricordo. 5 giugno 1988, ve lo ricordate?

Sembra strano narrare una neve e un gelo racchiusi in un 5 giugno. Però in quel giorno del 1988, sulle Alpi fu inverno. Un gelo vero che d’improvviso piombò a sorprendere uno sport antico ma anche decadente come il ciclismo di allora. Quel 5 giugno cadeva di domenica e tutta l’Italia era preda di un maltempo ostinato, grondante. Così furono molti i televisori accesi e puntati sulla diretta del tappone Chiesa Valmalenco-Bormio che comprendeva la scalata del Gavia, leggenda dello sport italiano. 2618 metri, 1300 di dislivello.

La mattina i corridori del Giro erano perplessi. Dentro il freddo esagerato e l’aria che annunciava tormenta. non avrebbero voluto correre. Torriani però non li considerò. “Il Gavia è aperto? La tappa si fa!”

Non sapeva l’organizzatore del Giro (o forse sì) che da quella giornata sarebbero nate leggende capaci di dare un senso “storico” anche al ciclismo di allora, pieno ancora di passioni ma non di fuoriclasse. La maglia rosa era Franco Chioccioli, detto Coppino. E già il soprannome dice tutto. Si guardava indietro creando legami con le leggende ma creando solo diminutivi. Altri uomini di classifica erano Breukink, un olandese, Zimmerman, uno svizzero e un americanino, Andrew Hampsten, capitano di una squadra che sulle maglie portava il nome di una bibita frizzante e leggera, un sorso di sapore, nulla più. Chissà se alla mattina, decidendo di correre nonostante il freddo invernale Torriani per un attimo pensò al ciclismo delle leggende, quello raccontato dalle voci radiofoniche. Immaginato e non visto. Fatto sta che in quel giorno di tormenta, gli elicotteri ponte della Rai non volarono e il presente delle telecamere fu cieco. Nessuno vide, tutti però poterono ascoltare e immaginare. Come si faceva una volta. Sul Gavia, già da metà salita, scoppiò la tormenta. A quel punto fermare la corsa sarebbe stato troppo pericoloso. D’altra parte, come si sarebbe potuto avvisare tutti e poi pareggiare la differenza fra chi aveva avuto coraggio, e stava avanti. E chi no?

Quello degli anni ottanta era un ciclismo impreparato alle leggende. Quell’ascesa divenne un’avventura solitaria contro la natura e l’ignoto. Sotto la neve, nella tormenta, molti neanche si misero la mantella perché fermarsi avrebbe potuto voler dire non ripartire. I deragliatori dei cambi, bloccati dal ghiaccio, smisero di funzionare. Si tornò ad un ciclismo a ruota fissa, come quello dei pionieri, fatto di uomini soli, perchè quasi tutte le ammiraglie non riuscirono ad arrivare in cima.

Il Coppino, troppo esile di fisico e un po’ anche di carattere, sparì subito dalla contesa. Di quella tappa c’è un’istantanea di Van Der Velde, olandese in maglia viola che pare gemella di una di Simpson di vent’anni prima. Entrambi i corridori sono piegati sul manubrio come lo sforzo di pedalare fosse una condanna. Spingono all’estremo ma non vanno avanti. Entrambi hanno accanto persone che non sanno come fare per aiutarli. Simpson ha lo sguardo allucinato di droga e caldo, Van der Velde in pantaloncini e  maglietta, coperto di neve e  freddo.

I corridori che quel giorno del 1988 non furono annientati dalla salita, lo furono dalla discesa.  Van der Velde, primo a transitare in vetta, sparì bloccato da un semi-congelamento e arrivò al traguardo un’ora dopo i primi.  Molti altri si fermarono, portati giù segretamente dalle ammiraglie, assiderati, non controllavano più nulla del loro corpo. In discesa non potevano frenare. Ne’ curvare.

La tappa fu vinta da Breukink. La maglia rosa la indossò Hampsten che probabilmente fu l’unico che quel giorno prese sul serio il gelo, andando così a cogliere l’unico trofeo “pesante” di una carriera per il resto grigiastra. D’altra parte, su quei 2618 metri di freddo e tormento, il concetto di valore tecnico era morto subito. Quello è fatto di numeri, c’entra poco con le leggende, mosse dagli umori e dai paesaggi, umani e non. Sfondi come la volontà e l’insensatezza. O il freddo.