Totti, la bandiera nella polvere
Per scrivere di Francesco Totti, e di bandiere nel calcio, è meglio mettere le righe come vengono dal cuore, senza starci a pensare e a lavorare di cesello, perché qualsiasi cosa si dica ci sarà sempre qualcuno pronto a dirti che stai sbagliando, oppure a urlare che non capisci niente o a sbraitare che scrivi solo cazzate.

Nello stretto ambito calcistico, per dire cos’è stato
Francesco Totti, basta mettersi davanti alle immagini dei suoi 200 goal e
oltre. Sedersi davanti allo schermo dicendo: provo a guardarli, e quando la
cosa si fa noiosa, mando avanti veloce il filmato. Provateci. E se veramente
amate il calcio al di là delle ideologie, magicamente vi accorgerete che siete
arrivati all’ultima rete del “pupone” in un battibaleno e senza annoiarvi,
perché in fondo la noia è figlia dell’ovvio, dello scontato, e nessuno (neanche
i 50 rigori) di quei palloni entrati in rete sono figli di un dio banale.
Dunque, per partire, possiamo dire che Francesco Totti ha incarnato la bellezza e la nobiltà del calcio. Francesco è stato l’arte della palla messa ogni volta dove lui la vuole mettere. E’ la capacità di varcare con un pallone il confine del minimo indispensabile. Una fantasia capace di riuscire in quel disegno dell’impossibile che solo il “genio” può concepire. Qualcuno ancora dice che Francesco Totti non è un fuoriclasse perché nelle partite che contano non sempre è incisivo? Beh, anche se fosse, chi se ne frega dell’incisività?
Però l’ultimo dei dieci giallorossi, nel simbolico, è stato di più di un
grande talento. E’ Roma, e non ce ne vogliano quelli dello striscione noi
discendiamo dai Cesari e voi dai Cesaroni. Incarna la “città eterna” proprio
nel senso che danno i suoi goal, una città che merita la gradazione di
tutti i sentimenti: l’amore, la meraviglia, il disprezzo, l’odio e tutti gli
altri tranne uno, quello più mediocre, più opaco: il senso della banalità. I
goal di Totti non sono mai banali, esattamente come la sua città, che al limite
puoi chiamare coatta credendo di offenderla, ma non ti accorgi che
probabilmente hai lo stesso tono di chi, cento anni fa, descriveva i quadri di
Ligabue come disegni da bambini.
“Mo’ je faccio er cucchiaio”. In questa frase è stato Totti.
Francesco calciatore e Francesco uomo. Perché un rigore puoi segnarlo
semplicemente mettendo la palla nell’angolino, ma fare così in una semifinale
europea sarebbe stato davvero troppo banale.
E poi, è stato il sorriso prima del rigore di Australia-Italia del 2006. Un
sorriso messo in faccia alla assoluta tranquillità, anche a quella di
costruirsi una famiglia che si sforzi di non essere mai sopra le righe, come se
la soglia del consentito, non fosse una mediocre media della società. Che tutti
facciano così, non vuol dire che deve essere così.
Francesco nasce a San Giovanni, in centro, come si dice a
Roma e dalla prima palla calciata nel campo di terra sotto casa, per Francesco,
tutto è venuto facile, perché un talento prepotente come il suo era evidente a
tutti.
La frase di Dino Viola ad una festa delle giovanili “Presto sarai in prima
squadra” descrive una parabola che l’ha portato ad essere capitano giallorosso
a soli ventidue anni. “A regazzì, vatte a fa' la doccia che a questi ci penso
io.” Mazzone, un po’ il padre del suo esordio in massima serie, quello che lo
prese per mano e che in maniera brusca lo sottrasse ad una stampa sportiva come
quella della capitale sempre pronta a sommergere di parole un talento, fino
a rischiare di soffocarlo come fa una madre troppo apprensiva.
E’ ormai luogo comune dei nemici che
Totti è un indolente (a dirla bene) baciato dalla fortuna e dal talento.
Questo si dice. Viziato, sotto un certo punto di vista, sì, lo è. E’ chiaro che
stiamo parlando di un mondo privilegiato, di ricchezza fuori dalla nostra comprensione
e ahime’, sensazione. Che il termine attaccamento alla maglia potrebbe
risultare un po’ annacquato, quando il sacrificio porta un compenso annuale
pari ad un fatturato da pmi, eppure, pur restando nelle valutazioni di un
mercato calcistico, certi toni e comportamenti passati, in fondo, possono
anche segnare una differenza.
2003/2005. Il periodo giallorosso è cupo, buio. Totti è tornato da un mondiale strano, con un’Italia Trapattoniana inespressa, rimasta sospesa e fatta fuori da un arbitro assolutamente sconcertante nella partita contro i padroni di casa, tale Moreno che poi, più avanti, sarà invischiato in storie di droga. Il capitano della Roma da quel mondiale 2002 ritorna sconfitto, pesto, dentro una città giallorossa sbiadita, con un Capello che sembra aver già dato il meglio sul prato dell’Olimpico.
Per di più Totti si infortuna malamente in allenamento coi ragazzi della
primavera, è fuori e quando ritorna comincia a respirare un clima
sfiduciato, che sembra anche un po’ rinnegarlo.
Dall’altra parte e attorno a lui, attraverso il suo entourage, cominciano a
farsi solide le sirene del Real Madrid-galacticos, che aveva già saputo
dirottare l’aereo di Ronaldo da Milano al Bernabeu.
La maglia dei “blancos” per Francesco è sempre stata il sogno di riserva. Anche
lui ha respirato il fascino misterioso che avvolge tutti i calciatori davanti
al Real, tanto che probabilmente nessuno dei grandi, tranne impedimenti
contrattuali, ad una proposta dei madrileni ha avuto il coraggio di dire no.
Pare difficile negarsi, anche perché Totti è sempre piaciuto ai galacticos, un
richiamo atavico che lega le emanazioni calcistiche delle due capitali.
Per Francesco, c’è anche un’offerta monetaria di molto
superiore a quella che la Roma gli garantisce. La proposta si fa sempre più
concreta, finchè ad un certo punto tutto sembra fatto, senonchè, d’improvviso
domenica dopo domenica, la sud ricomincia a intonare con più convinzione “un
capitano… c’è solo un capitano” e si inizia ad intuire che di quella Roma appena
abbandonata da Capello per la Juve, è lui, “er pupone”, l’unico emblema.
E così, Francesco Totti, forse per primo fra i grandi, al
Real dice no. Rinunciando anche ad un bel po’ di denaro ma sicuramente, visto
quel che prende, se lo può anche permettere,
Emblema, dicevamo. Dopo quel rifiuto il destino lo porta a divenire un’icona
anche extracalcistica. Il simbolo di un certo modo di intendere, costruire e
vendere una immagine.
Escono i libri sulle barzellette, che monetizzano al massimo
le dicerie sulla sua ignoranza, in una atmosfera fra il classico e il
Vanziniano che però prevede una variabile nobile, la beneficenza. E va anche in
scena il suo matrimonio con Ilary, tutto dentro la cultura televisiva del
periodo ma sostanzialmente anche al di sopra di essa, per come la rende
essenziale, eccessivamente geniale, tutto sommato, incarnando l’eleganza
di una nuova specie, finora sconosciuta…
Già, Totti, come Roma, ha il destino di non essere banale, e non suscitare
sentimenti banali. Tutto estremizzato, alla fine.
Come l’infortunio del 2006. Un mondiale che sembra perso.
Una processione di “nobili” al suo capezzale che lo direbbe un grande anche
senza la Germania, che fra l’altro, nella bufera di calciopoli, avrebbe potuto
avere un ritorno di immagine assolutamente negativo. Pigro Totti? Lì, al
richiamo di Lippi, avrebbe potuto rispondere non ce la faccio. Ci sarebbe stata
la storia medica del calcio a testimoniare a suo favore. Riprendersi in 3 mesi
da una frattura del “perone con interessamento dei legamenti della caviglia”
aveva del miracoloso.
Totti non ha risposto no. Ha fatto il miracolo. In Germania c’era. E nel 2006
la nazionale italiana (parere controcorrente, anche grazie a lui) è diventata
campione mondiale
Poi, al trionfo del “Circo Massimo” Francesco Totti è
tornato Francesco Totti. Si è vestito un po’ da italiano, un po’ da
giallorosso. La sua solita ostinata connotazione.
Ora, anno domini 2016, siamo a misurarci con la fine da
giocatore di Francesco Totti. Perché nulla è eterno, nessun uomo. Tranne Roma. Avrebbe dovuto
smettere prima?
Ci sarebbe da collocarlo da qualche parte, quel prima.
Sicuramente Francesco sognava di chiudere in grande, magari con un trionfo che non è
arrivato, e tra amore del calcio e voglia di stupire, tutto a poco a poco si è
trascinato troppo avanti.
Adesso, è finita. Male. Un contratto che non si
rinnoverà. L’offerta di un incarico da ritagliare su misura, dovrebbe essere la
via d’uscita della società perché si evitino polemiche e clamori.
Sarà
d’accordo Francesco? Mah. Lui si sa. Non è banale...