Benvenuti all'inferno!
”Benvenuti all’inferno”, dice così lo striscione messo all’inizio della Foresta di Aremberg, l’icona succo dei 53 chilometri di pavè monumento della regina delle classiche, come la Parigi-Roubaix è sempre stata chiamata. (Foto Fabrizio Delmati)

Aremberg, una strada per capre e carbone inventata nel 1968
da che quella via l’aveva percorsa molte volte: Stablinski, ex corridore che da
ragazzo aveva sofferto come minatore su quel pavè grosso, nero, fatto di pietre
sconnesse che si danno le spalle, creando dislivelli micidiali per ruote, mani,
spalle e fiato.
Nel 1946 Jean era un minatore di 14 anni, orfano di guerra, che aveva in mente solo due cose, guadagnare qualcosa per sfamarsi e avanzare qualche soldo per un manubrio a corna di bue da innestare alla vecchia bici del padre. Lo comprò quel manico ritorto e con il talento delle sue gambe si salvò dalla povertà ma senza dimenticare quegli anni. Fu un luogotenente di Anquetil, ma vinse anche molto: 100 corse fra cui una Vuelta, un Giro del Belgio, tappe al Tour e al Giro d’Italia e la punta di Salò, dove nel 1962 conquistò la maglia iridata.
Comunque, pur immerso nel mondo da commedia americana del ciclismo-Anquetil anni sessanta, Stablinski non dimenticò mai la durezza di quella strada allora percorsa con i carichi di carbone, tanto che la indicò all’organizzazione per la Parigi Roubaix.
Così la Roubaix,
regina delle classiche, vide aggiungersi un altro strappo di durezza alla sua
scorza di spietata corsa ad eliminazione. Immagine di un ciclismo fatto di
volti macerati dal fango e dalla polvere. Una corsa non per chiunque, perché
essere corridopre da Roubaix non è da tutti. Vincere la regina è un gallone che
può bastare ad una carriera. Tipi a parte, quelli che possono dire di essersi
goduti il velodromo da vincitori.
Nomi che restano, e a dimostrarlo basta nominare gli italiani degli ultimi decenni. Uno è Francesco Moser, che nella corsa della resistenza e della forza vedeva finalmente il terreno giusto dove lasciar libera tutta la potenza. Sul pavè il trentino poteva “menare” senza pensare a Saronni, che certo a saltare come un contadino qualunque su quelle pietre neanche ci pensava, e inesorabilmente, lontano da ogni bega o dualismo, il trentino vinceva. E poi un altro nome d’italiano, uno che casualmente ci ha lasciato troppo presto, Franco Ballerini che alla Roubaix diede caccia per anni e anni, ne fece sua ossessione. a volte persa per sfortuna, altre per ingenuità, ma poi alla fine due volte vincitore, coronando una carriera.
L’ultimo tricolore fiammingo è stato Tafi, nel 1999, l’anno dopo l’ultimo Ballerini, poi basta, la corsa del pavè è stata questione di altri, nonostante qualche speranza poi andata persa. Altri che sono stati prima Museeuw, e poi, per otto anni otto praticamente sempre quei due lì (tranne la parentesi quasi casuale di Van Summeren di due anni fa) Cancellara e Boonen.
Una sfida da Highlander, la loro. Due corridori, di cui uno particolarmente imperfetto, Tom, con quella positività alla cocaina che lo sporcava e lo rende un po’ più umano dell’altro, alla fine un po’ noioso nella sua potenza indiscutibile e devastante. Uno ora è sparito, l'altro ci sta salutando degnamente. Saranno di altri la Roubaix Nuova.Però, che importa chi saranno i protagonisti? In fondo la Roubaix è una regina, e come tutto ciò che riguarda la sovranità, vive di grandezza assoluta e può permettersi di esistere a prescidere dai nomi.
Per chi ama il ciclismo è un appuntamento fisso, a prescindere da quel che i ciclisti si meritano. La Roubaix è polvere, fango, sudore, storie, memoria, leggenda, miseria e povertà, ricchezza e grandezza, umiltà e sofferenza. Una cosa che riguarda semplicemente uomini che corrono su delle biciclette? Ma va, la Parigi-Roubaix è vita!