Mondiali di sci, attimo troppo fuggente

E’ un paio di giorni che sulle piste di Vail sono iniziati i quarantreesimi mondiali di sci alpino, ma l’impressione è che il nostro paese (al di là dei freschi successi di Paris e delle celebrazioni di rito) l’avvicinamento ai titoli iridati non se lo sia filato più di tanto.

E’ un paio di giorni che sulle piste di Vail sono iniziati i quarantreesimi mondiali di sci alpino, ma l’impressione è che il nostro paese (al di là dei freschi successi di Paris e delle celebrazioni di rito) l’avvicinamento ai titoli iridati non se lo sia filato più di tanto. Sì, day by day corrono puntuali le telecronache e i commenti a doppia voce. Sì, gli inviati delle testate principali stanno producendo, da contratto, le analisi e interviste di rito ma, tutto sommato, nella penisola, sembra mancare lo sguardo della passione, come se si stesse ricordando che siamo bagnati per tre lati dal mare, e perciò la neve non è che faccia del tutto per noi. A dirla tutta, è un po’ che quaggiù l’appeal agonistico dello sci alpino pare scemato. Sarà che non si vince più come una volta (botti a parte) ma resta l’impressione che al nostro paese fare dello sci qualcosa più di un hobby non interessa ormai più, dato che lo sport sulla neve di massa (a cui tendeva l’espansione comunicativa degli anni settanta), è cosa fatta e realizzata. Oggi, infatti, chiunque più o meno stia a portata di neve ( cioè è in grado di raggiungere in tempo utile montagne e impianti) ci tiene che i figli, oltre che a nuotare e andare in bicicletta, imparino a sciare. A questo punto, garantiti buoni futuri incassi agli impianti e alle scuole-sci, tutto sommato il mito delle gare e dei campioni non serve granchè. Ormai si tratta solo di raccogliere i frutti della visione che decenni fa portò a misurarsi con le pendenze del gelo tanti ragionieri e gitanti della domenica, montanari raffazzonati e un po’ improbabili, appena al di sopra del Fantozzi con la botticella da Sanbernardo a tracolla.

Già, gli anni settanta e il bianco della neve. O meglio, gli anni settanta, il bianco della neve e il nero della tv. La scintilla scatenante della passione fu il matrimonio d’interessi avvenuto fra sci e televisione, sponsor di una squadra agonistica di alpino tecnicamente irripetibile e straordinariamente vincente. I tempi e gli interessi delle due diverse realtà allora si congiunsero appieno, perché le gare dello sci andavano a riempire con ascolti boom il tempo vuoto del monoscopio Rai, le cui  trasmissioni festive cominciavano con la Messa domenicale, mai prima. Ecco, la diretta della prima e della seconda manche degli slalom (manche: nome esotico, dolce e francese che l’Italia imparò in breve ad accoppiare al gutturale e teutonico Thoeni) alla domenica mattina ci stavano proprio bene. Una prima, e una dopo l’appuntamento religioso, con la seconda a cadere sul rito del pranzo familiare.

Una avvincente lotta sportiva davanti alla tavola imbandita e negli occhi di più generazioni, cosa di meglio per attirare attenzione e per fare brand, mercato, insomma. E l’attenzione assoluta delle famiglie italiane sul mondo della neve e dei paletti, ci fu. Il termine valanga azzurra dimostra che lo sci dell’epoca (già, epoca, perché si parla bene o male di quaranta anni fa) ottenne un titolo da sport epopea, quelli leggendari, che durano nei decenni.

Sci come marchio. Sci, come prodotti di mercato. Innanzitutto l’abbigliamento, che sfondò, scendendo dalle montagne più o meno come fanno i greggi nella transumanza. I cappellini tecnici, le giacche a vento, gli occhiali a specchio furono promossi a capi da abbigliamento urbano, e da allora, si meritarono una cittadinanza metropolitana del tutto credibile.

Il grosso comunicatore di quella “valanga azzurra” fu Mario Cotelli che sopperiva ai silenzi altoatesini con una vivacità valtellinese affiancata ad una grande creatività tecnica. Probabilmente si portava addosso lo stesso entusiasmo che aveva preso la sua valle lombarda, che come molte altre dell’arco alpino si stava riempiendo di alberghi e seconde case, tane dei  cittadini che venivano a popolare impianti all’avanguardia, in un impeto di rinascita sciistica che prese le località attorno ai mille metri d’altitudine. Un ossigeno sciistico-turistico che riportò a nuova vita intere contrade (in alcuni casi però con un po’ troppa “spinta”, con luoghi incontaminati trasformati in disboscati luna-park).

Poi, per successione naturale delle cose, gli anni settanta sfociarono negli ottanta, con una squadra azzurra maschile sempre competitiva ma che si trovò a misurare il binomio di fenomeni Girardelli-Zurbriggen. Ci pensarono le donne a prendersi il primissimo piano, e la valanga nei titoli cambiò colorazione, da azzurra a rosa, con alfiere finale, quando ormai si era nel decennio novanta, un cognome etnico che veniva dalla parti di Cotelli. Una Compagnoni, che di nome faceva Deborah. Fu in quegli anni che la storia dello sci divennne  un uragano urbano di nome Tomba, l’Alberto che cambiò con il suo modo l’esistente e per un decennio portò il mondo delle piste innevate a bagnarsi nel nascente universo del gossip. Semplicemente, Tomba era superiore al resto di mondo che lo circondava, sia dal punto di vista tecnico che in quello comunicativo, ma fu fenomeno mediatico a parte, che travalicava lo specifico sport degli sci. Perché Tomba sarebbe stato Tomba in qualunque ambito, su una moto, su una macchina, spingendo una bicicletta o su di un kayak. D’altra parte, come detto, lo sci già allora non ne aveva più gran bisogno di presentarsi all’Italia, ormai era parte integrante della nostra società e dei nostri costumi. I termini discesa, slalom, gigante non servivano più per espandere piste e impianti di risalita. I campioni non erano più indispensabili per costruire un turismo che si reggeva bene anche da solo. Anzi, oggi, un po’ per ragioni climatiche e un po’ per limiti di budget, tante piste nate allora e un po’ basse stanno ritornando bosco, che poi  non è male. Così, nel terzo millennio, lo sci alpino italiano ha più che altro discretamente galleggiato, perdendo forse anche per strada la follia di atleti che avrebbero potuto in qualche modo rivelarsi personaggi. Si è svoltato di decennio ancora in ordine sparso, un po’ involuti come siamo anche arrivati  a questo mondiale statunitense, con una squadra maschile in età media un po’ vecchiotta, e una femminile un po’ i n più in divenire. Si è in America, ennesimo fa e disfa delle valigie in uno sci alpino confuso ormai tra i continenti, troppe date, troppi viaggi, troppi incroci. Un circo mai fermo, che si guarda spesso l’ombelico e in cui i riflettori fanno fatica a puntare. Un set frenetico in cui le telecamere stentano a  riprendere il soggetto interessante, la storia vincente, dentro un evento agonistico che già di suo, è difficile da seguire. Se sei a viverlo sulla pista, ogni concorrente ti lascia uno zip di colore e via, oppure, se sei davanti alla tv, ti sono concesse poche centinaia di secondi. Sembrano spot, più che gare e oggi, in mezzo a tanta concorrenza televisiva, una sostanza resa così fulminea pare poco, davvero troppo poco perchè qualcuno possa trovare interesse a farne leggende od epopee. Insomma, per divenire qualcosa destinato a rimanere oltre la pubblicità. Forse anche lo sci dovrebbe ritrovare un suo originario, con meno centesimie più neve, con meno marche e un po’ più di lana, c on più sport, e meno apparenza. Ritrovare le sue storie. Per tornare vero. Noi tifiamo Paris, Gross, Fanchini. Ma c’era una volta, a Cortina....