Ciao Loretto: corridore nuovo che osò sfidare Coppi, ma perse...
Tre giorni fa Loretto Petrucci ci ha lasciati. La sua è sempre stata una immagine mitica, una grandezza che colse molto meno di quel che avrebbe potuto. Il perché? Sta in una storia del 1954, che ririaccontiamo…

Storia del 1954, strappo nel ricamo che parte da Milano e arriva a Sanremo.
Un tracciato che pare una corsia di box. 1954. Il buio alle
spalle era chiamato guerra fascista ma quella Sanremo era sfavillante di
novità, tanto che dentro la collana di vetture al seguito se ne poteva
scorgere una insolita, con una scritta bianca e oscura: RAI! Trasmissioni
sperimentali. Dietro di essa veniva il gruppo, con la solita, rituale e rustica
fatica.
Altra novità di quegli anni era un giovane di Prato, Loretto Petrucci. Uno che
aveva intuito cosa fosse essere personaggio, abituato a parlare schietto, fatto
anomalo in mezzo ad un gruppo che ancora si muoveva al ritmo lento della
memoria. Ogni volta che si trovava davanti ad un giornalista, Petrucci
andava fuori tono. Gridava che per il ciclismo, come per l’Italia, era tempo di
cambiare le cose, lasciare le maglie di lana nei cassetti, abbandonare le
strade impolverate e ghiaiose, dimenticare l’odore di olii canforati e di cose
antiche, e magari lasciarsi indietro anche i vecchi campioni, ormai vestiti
usati utili solo per qualche ricordo.
Petrucci aveva già vinto due Sanremo e dopo quella del 1953 la sua voce era
risuonata come tuono d’aprile: “Fausto Coppi per le corse da un giorno non ha
più nulla da dire.” spavaldo, come sapeva volare in bicicletta, tanto da
sembrare uno destinato a vincere senza soffrire.
Petrucci quell’anno si era sbagliato, Fausto riuscì ancora a dire cose
stringendo denti e cuore in una Lugano bruna come la sponda che stava prendendo
la sua vita. Eppure chi lo frequentava descriveva un airone ormai proteso a
contare gli anni come vedesse il ciclismo sfuggirgli, sabbia tra le dita.
Coppi, con la storia di mogli abbandonate, la stava rinnovando l’Italia, eppure
la sua concezione di ciclismo era di un altro andare, e per lui i giovani
dovevano innanzitutto rispettare il branco.
Petrucci fu cacciato dalla squadra del campionissimo, ma quel pomeriggio del 27
marzo 1954 era ancora lì a dar fastidio, mischiato ad un gruppo che poteva
battere con una gamba sola.
Via Roma nelle storie di ciclismo è serpe velenosa, una belva quasi impossibile
da domare, ma per Petrucci poteva essere un annuncio di tappeti rossi
Festivalieri, vestiti bianchi, telecamere e luci accecanti.
Ultimo chilometro: Loretto studia il gruppo, sfila uno ad uno i velocisti,
sorride, poi si alza perché sa che è ora di andare a raccogliere. Petrucci si
alza. E spinge. Petrucci si alza, e spinge ma la bicicletta non va. Una
foratura? No, è di più. Petrucci rallenta. Petrucci non è più primo.
Petrucci non vince la sua terza Sanremo consecutiva. Il peso che quel giorno
gravò su Loretto e lo tenne lì, impedendogli di vincere la terza Sanremo e di
essere storia si chiamava Pino Favero che si aggrappò al sellino del
predestinato vincitore come aveva ordinato il suo capitano, Fausto Coppi.
Petrucci non vinse la terza Sanremo.
Petrucci non conobbe i tappeti rossi dei festival. Da quel 27 marzo 1954
Petrucci si perse. Le cronache raccontano che Loretto smise di correre a 27
anni, con la colpa di aver provato ad essere futuro quando Fausto non era
ancora passato.