Il grande Verona di trent'anni fa

Una grande squadra che doveva essere piccola, o una piccola che divenne grande. Non si sa, anche perchè poi il discorso delle categorie non serve granchè, nello sport. Di fatto una storia splendida e miracolosa, con alle radici il mestiere di un milanese, l'Osvaldo Bagnoli della Bovisa.

Nella storia del calcio, quello delle grandi o piccole squadre, è concetto poliedrico. Un po’ etnico -geografico (le “grandi” sono sempre emanazioni delle “grandi” città), storico (le “grandi” squadre hanno un “grande” futuro alle spalle, come si dice) e anche e sopratutto politico (la “grande” squadra è grande, e basta) e lo è quanto meno si proclama tale, un po’ come i veri signori che si riconoscono dal portamento e non certo dal portafoglio.

Ad esempio, nella storia le “grandi” non hanno mai recriminato sull’arbitro (e quando mai ne hanno avuto bisogno?) Al contrario, erano le provinciali che, o allargavano le braccia, o provavano a farsi sentire anche se (come le grandi imponevano) giornali e tv tendevano a sentirle poco.

Questa considerazione mostra quanto l’oggi “piangina” sia farlocco. Le tristi e indignate lamentele sui centimetri e sui rigori malassegnati che hanno riempito questi anni, rendono evidenti quanto la presunta grandezza di ogni “supertitolata” poggi ormai più su impalcature di debiti che su una reale sostanza. Una illusione insomma, ‘sta grandezza, e sotto il vestito ci trovi il niente, il vuoto, il nulla…

Noi, proprio per vendetta verso le apparenze attuali,  vogliamo occuparci di una piccola, in particolare l’ultima che riuscì a vincere lo scudetto. Ve lo ricordate? L’anno era il 1986 e la vittoria in gialloblù della città di Giulietta rappresentò anche l’apice di un uomo semplice, e apparentemente piccolo, che seppe fare l’impresa e poi andarsene nella maniera che solo i “grandi” sanno fare. Stiamo parlando dell’Osvaldo della Bovisa. O, detto alla milanese:  il Bagnoli.

Per raccontare la prima apparizione di Osvaldo Bagnoli nel calcio che conta, bisogna partire da una squadra milanese (quella stata in B). In particolare, i rossoneri dello scudetto 56-57, compagine che parrebbe in qualche modo baciata dal demone della strategia (ma potrebbe anche essere il lascito progressista dell’allenatore di allora, Gipo Viani)  perché negli undici troviamo oltre al succitato Bagnoli, anche Liedholm, Radice e Maldini che messi assieme fanno tanti scudetti e tanta Nazionale. Ma per capire la sostanza più profonda dell’Osvaldo, bisogna fare un salto più indietro nel tempo e trovarlo bambino alla Bovisa, nel suo quartiere meneghino che allora era appena un grumo di vie e case  popolari, chiuse dalla ferrovia e da capannoni che avrebbero avuto la chance di entrare nella storia del cinema (perché lì nacque l’Armenia Film e il primo lungometraggio italiano) se solo il Duce non avesse voluto portare tutto a Roma chiamandolo Cinecittà. La Bovisa, insomma, era un semplice orizzonte di periferia che induceva naturalmente alla piccola dimensione, all’umiltà, la stessa che Bagnoli mostrò in carriera. Infatti, al di fuori della parentesi-scudetto milanista (ma lì Bagnoli fu più che altro riserva di Cucchiaroni) quella da calciatore fu una carriera di piccole squadre: Verona, Udinese, Catanzaro, Spal, Verbania, un calcio sostanzioso quanto il burro, pane e zucchero di una volta. Smesso di calciare il pallone, Bagnoli, trascinato da Pippo Marchioro (un altro uscito trainer dopo essere stato giocatore al Milan) si mette ad allenare. Fin da subito veste i suoi panni: quelli della provincia di piccola taglia. Lui, alle grandi squadre, d’istinto non ci pensa. Si trova bene con le giovanili o le serie inferiori, un calcio di fango e terra con poche persone sugli spalti, spontaneo e vitale. Osvaldo in panchina ci sa fare e vagando su e giù per l’Adriatico raccoglie risultati. Prima a Rimini. Poi a Fano e a Cesena, dove conquista la massima serie. A questo punto della storia, squilla un telefono. Dall’altra parte del filo è Guidotti, il fresco presidente del Verona,  che dopo la salvezza appena conquistata richiama il tecnico della Bovisa.

Bagnoli va. E fin da subito, trasforma la squadra salvata da Masè alla sua maniera. In fondo, nella sua concezione,  l’Osvaldo fa quello che succederà in un altro Paese e in un altro sport vent’anni dopo e che persino Hollywood celebrerà. Solo che quelli scelti dal grande cinema sono americani e si chiamano Indian’s Cleveland e giocano a baseball su di un diamante, mentre quelli di Bagnoli erano il Verona e inseguivano una palla in un campo rettangolare della serie B. L’Osvaldo (che se non si chiama  Billie Beane come quello di Cleveland e Brad Pitt non riuscirebbe probabilmente ad interpretarlo, visto il cappello strano che si mette in testa) non sceglie il giocatore tecnicamente possibile al badget ma quello più adatto al ruolo, cominciando a formare una squadra perfetta, anche se provinciale. Per il suo personalissimo “rooster” parte da un portiere tecnicamente improbabile ma straordinariamente efficace come Garella, e accanto gli mette una difesa-puzzle i cui pezzi sono Oddi, Tricella e Cavasin. A centrocampo Bagnoli vuole qualità, e la trova in Guidolin, un veneto fortissimo ma un po’ ondivago di personalità che però riesce a rendere non dispersivo per tutta la stagione e gli affianca Antonio De Gennaro, uno scarto nobile della Fiorentina troppo ancorata ad Antognoni. Davanti Bagnoli vuole “peso” e sceglierà Penzo, che non deluderà. Nel 1981, l’undici veronese realizza perfettamente quello per cui è stato creato: domina la B e così il Verona si troverà a giocare in A, e lo farà proprio nel mezzo del calcio campione del mondo, i cui vincitori si presentano nei ritiri per la prima volta affiancati da figuri che si dicono “agenti” e pretendono di discutere il contratto, vista la planetaria rivalutazione dei loro rappresentati. E’ in questo clima che  Bagnoli dovrà accettare, non convinto, lo scambio di “marketing” fra il “nostrano” Guidolin e l’esotico Dirceu, ma è chiaro che apparentemente, nel contesto dei grandi, il piccola Verona non c’entra granchè. Resta il fatto che i gialloblu saranno la grande sorpresa del campionato, dove raccoglieranno un clamoroso quarto posto. Per l’annata successiva, i veronesi perderanno due posizioni in classifica ma riusciranno ad acquisire due tasselli importanti di futuro: Galderisi e Fontolan, oltre alla seconda finale di Coppa Italia consecutiva. E così, siamo arrivati alla stagione 1984-1985. L’anno in cui, nel Belpaese, si trovano a giocare Zico, Maradona, Platini, Passarella, Rummenigge, Falcao, Cerezo, Brady e Boniek, nomi fatti per comporre undici di alta gioielleria, niente a che vedere con l’artigianale imprenditoria veneta, quella allora vincente nel sistema paese. Per la squadra scaligera, dal mercato arrivarono sillabe meno roboanti ma di assoluta sostanza: Briegel, un tedesco, ed Elkjiaer, un vikingo danese. Con loro, il miracolo di Bagnoli è compiuto. Per cogliere l’essenza di quella stagione, basta narrare una partita. Era il 14 ottobre, quinta giornata di un campionato che ancora non aveva espresso nulla. In un Bentegodi tutto esaurito, scende la Juventus. Il Verona è in testa ma è considerata l’anomalia di un campionato ancora non delineato. Fra l’altro, la Juventus aveva preso la partita contro gli scaligeri un po’ alla leggera, privandosi  di Platini, reduce da un impegno in Nazionale e messo in panchina, a riposare. Fin dal primo minuto, però, in campo ci fu una squadra sola. Non la supposta grande ma  quella più piccola: il Verona Hellas. La Juventus non si raccapezza, i gialloblù paiono imprendibili, veloci e potenti. Il primo tempo sarà tanto a senso unico tanto che la “grande” si sentirà costretta a mettere in campo il pezzo pregiato, il gioiello di lusso, le roi Michel. La musica però non cambia, tanto che nel rettangolo verde per una volta il fuoriclasse bianconero sembrerà solo una vistosa carampana del tutto fuori posto in quella festa di gioventù. Il primo inevitabile goal arriverà al sessantaduesimo e a segnarlo sarà proprio un Bertoldo, Galderisi detto Nanù, di testa davanti alla  supponenza di un portiere immobile, che non esce. Nell’istante esatto della segnatura, tutto lo stadio e assieme ad esso tutto il calcio italiano comprendono che il Bentegodi potrebbe essere uno spazio in cui tutti i sogni sono possibili. In particolare, il ruolo di incarnare un gesto mitologico quel giorno spettò ad un danese che per potenza assomigliava agli dei nordici, un calciatore inarrestabile: Elkjaer. All’ottantaduesimo Preben Larssen è messo alla sinistra del centrocampo. E’ solo, tra quattro difensori bianconeri. Riceve la palla direttamente dal rinvio del portiere, la lascia passare e  poi  a due metri dalla linea centrale se la tira avanti. D’improvviso, la progressione di quel giocatore assume le sembianze della storia, quella che in certi crocevia non fa contare la ricchezza, o il lignaggio, ma la sostanza. Da quando muove il primo passo, tutti capiscono che Elkjaer sta tentando l’impossibile ma allo stesso tempo, sanno anche che a quel danese l’impossibile riuscirà. Quel goal sarà il simbolo della cavalcata dei gialloblù di Bagnoli verso lo scudetto, con giocatori e “grandi” squadre protese inutilmente nel tentativo di fermare un Verona di nordica irruenza. Alla fine della corsa il vichingo si troverà davanti alla porta. Nella cavalcata ha perso la scarpa  e quel goal storico lo segnerà così, scalzo. Quei gialloblù in annata si dimostreranno una squadra perfetta, essenza di un allenatore che saprà mettere sulle spalle dei calciatori la sua storia personale: l’umiltà di un quartiere operaio, la forza per sopravvivere ai bombardamenti, un calcio giocato fra i campi di periferia a piedi scalzi, uno sport in grado di guardare ogni passo del sentiero  e non solo la cima.  Una favola grande, ma breve. Già l’anno dopo il vento riprese la direzione in cui aveva sempre soffiato. Lo si vide bene quando a Torino,  negli ottavi di Coppa Campioni contro la Juve (campioni d’Italia contro campioni d’Europa) il Verona pagherà il dazio di essere piccola. Subirà di tutto, in novanta minuti. Alla fine lo spogliatoio esploderà, tanto che interverranno allarmati i carabinieri. Ad accoglierli si alzò l’accento di Bagnoli. “Se cercate i ladri, li trovate nell’altro spogliatoio” urlerà fra rabbia e ironia l’uomo della Bovisa.

La carriera successiva di Bagnoli (nove anni a Verona) vedrà la creazione di un Genoa incredibile ma durato una sola stagione. Poi, per l’Osvaldo, verrà l’incontro con la prima “grande” squadra della carriera, l’Inter. Sarà fatale, perchè la “voglia” calcistica di Bagnoli si spegnerà proprio lì, a San Siro, dove dai vecchi popolari si riesciva  a vedere, ad un tiro di schioppo, le case della Bovisa. Dopo l’Inter, Osvaldo Bagnoli ha cambiato mestiere. Fa l’albergatore. Sempre a Verona, si capisce.

Vive tranquillo, qualche volta va allo stadio ma nella città veneta il calcio che più conta adesso è quello di un quartiere, il Chievo anche se ultimamente le cose sembrerebbero essersi un po’ raddrizzate anche per l’Hellas e magari si può sognare che, prima o poi, sull’Adige rivivremo un bel derby di serie A. Sarebbe la rivincita per un veneto calcistico fatto solo di emigranti, vedi Baggio e Del Piero, per fare due nomi E chissà che proprio nella “fatal Verona” prima o poi,  non si mostri una alternativa a questo calcio italiano che fa finta di essere grande ma in realtà è sempre più piccolo. Certo è bello pensare che se mai accadrà, avverrà sotto gli occhi di Osvaldo Bagnoli, uno che la via per vincere da squadra “piccola” la conosce. Anzi, l’ha percorsa fino alla fine, in quello splendido 1985.

 

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