Juventus-Barcellona. La via per vincere è... essere italiani

Guardiamo la storia, e non la cronaca, E ricordiamoci di un'altra città della Germania, di uno scontro tra dei super-uomini, la Germania di Klinsmann, e un'italietta uscita dagli scandali. Come il grande Barcellona dei palloni d'oro e dei chi voglio prendo, e la Juventus, nata grande dalle ceneri dello scandalo del 2006. Come vincere il 6 giugno a Berlino in una partita che pare impossibile? Essendo italiani. Guardiamo la storia, sportiva e non, che a volte mette assieme strani paragoni...
Juventus-Barcellona, Italia-Germania 2006 e la Grande Guerra di Monicelli

Italia-Germania 2006. Non c'entra con Juventus Barcellona? Forse sì. Oggi, da una parte il Barcellona dei Messi e dei fenomeni, da un'altra la Juventus che si trova lì perchè merita ma nessuno lo avrebbe detto. Come Italia Germania, 2006. La cronaca di oggi e la storia di ieri. Vediamo se quel “ieri” può darci qualche soluzione. 2006.

Da una parte le illusioni come quelle che razza o destino siano scorciatoie per le vittorie, e dall’altra la sostanza indefinita della vittoria stessa. Come a Dortmund, 4 luglio 2006. Da una parte la squadra degli Iacovacci (ricordate il Sordi de la grande guerra di Monicelli?) undici “non so niente io!” messi al muro da Calciopoli.

Dall’altra gli austriaci impettiti, le maglie bianche, gli Uber Alles, gli Eroi dai destini irrevocabili: “Gli italiani… forme di vita parassitarie…. Sanno solo lamentarsi e sfruttare il lavoro altrui” un Der Spiegel tanto simile al copione del 1959. “Fegato? Gli italiani conoscono solo quello alla veneziana!”

Il Leone d’Oro della mostra del cinema di Venezia 1959 e la semifinale mondiale 2006. Qual è il nesso? Entrambi (sgorgati da bufere e polemiche) sono rappresentazione ruvida, alla Malaparte, di una realtà precaria ma vincente. Quella realtà si chiama Italia, quasi sempre sinfonia di personaggi miseri e grandi o grandi e miseri, è uguale, anche se a prima vista certi sportivi miliardari sembrano c’entrare poco con il Sordi lacero, piangente e tremante: “non so niente, lo sanno tutti che sono un vigliacco!”.

Sì, il 4 luglio sembrava storia già scritta. Unica incertezza, lo striscione che sporcava di dubbio le tribune: “L’unica volta che abbiamo perso una guerra è stato quando eravamo vostri alleati.” Stessa vernice del Busacca. ”Visto che parli così, mi te disi propri un bel nient, facia de merda!”

Italia 2006. Squadra che già dall’inno era prospettiva di un’imperfezione, a vedere quelli bianchi che declamavano Haydn all’unisono, un Uber Alles! che teatralmente metteva in disparte gli italiani alle prese con il mediocre pomporompompom di Mameli.

Anzi, a guardare bene nel bluette Dolce e Gabbana c’era un calciatore che neanche apriva le labbra.

“Io con gli inni non ci so fare. Non canto neanche il mio, di inno”

Camoranesi, mezzo argentino. Camoranesi mezzo italiano.

Camoranesi. Un mercenario. O più dolcemente, un oriundo, come li chiamava il football di tute larghe che non sapeva essere mercato. Per lui nessuno che abbozzasse una difesa. Non solo per questione di carta bollata, ma anche nel senso di Italia come nazione, nata da un singhiozzo di stati morenti. Se un secolo di storia non destina, non può cancellare. E se sono italiani quelli per ventura rimasti dentro i confini, restano italiani anche quelli (per ventura) partiti dalle mille Genova per sfamare una miseria.

No, non ci concediamo mai una difesa. Italia, nazione mezzo e mezzo. Nazione così così. A Dortmund lo si notava anche dai leader. Ballak di qua. Totti di là.

Quello in bianco, aquila sul petto, declamava con la mano sul cuore. L’altro biascicava. Nulla di epico. Nessuna risposta teatrale al massacro della stampa tedesca per il gesto del ciuccio all’Australia e neanche a quella Italiana, come sempre pronta a collaborare con un nemico.

“Bboni, state bboni” l’inchiostro versato sul numero 10, come il verso dello Iacovacci.

E’ che troppe volte Totti non sta “bbono”. Estemporaneo come ogni italiano, tende a mostrare troppo di sé.

Troppo capitolino, troppo esibizionista. Troppo romanista. Troppo… fuoriclasse. Troppo, ‘sto Francesco Totti da San Giovanni.

“Bboni, state bboni” si sforzano di ripetere i tanti Iacovacci, ma bboni perchè visto che le stesse pagine a quelli cheti non danno peso?

Defilato, solitario, mai appariscente, come calciatore Zambrotta è sostanza dei silenzi di dove è nato. Schiuma di lago quieto e sponde sottili, dove la folla non riesce ad accalcarsi. Ma se non si va a fondo alle cose si perderà sempre l’altro verso, tanto da non accorgersi di mondi che non sono solo riflessi nell’acqua, ma anche confini ripidi intagliati da un Dio e da una storia, come il terzino travolgente che con l’Ucraina ci ha regalato la semifinale mondiale.

Il fondo delle cose … “Padre, dov’è Cristo?” “Se ha trentatre anni è del 1885 ed è qui in trincea, con noi.” Parafrasando la sceneggiatura del 1959: “Italia.., dove sono gli italiani?” Beh, in quella squadra 2006 ce ne stavano tanti. Artisti, furbi, bambini viziati, guerrieri e anche un condottiero….

Il gesto d’arte era Pirlo, e spiegarlo dentro un calcio da bufali è raccontare ragazzi di bottega che hanno trovato ragioni per mutare un arte. Suo contraltare è la rabbia di Klinsmann, che prende una bottiglia e la scaglia sulla pista perché niente sul campo funzionava come si sarebbe aspettato. Eh, fingere l’Italia lanaccia semplice da sbrogliare è errore che si paga quanto quello dell’ufficiale austriaco: “Italiani? di fegato conoscono solo quello alla veneziana… “

Già. Italiani popolo che quando si spara preferisce prolungare le corvè lasciando gli altri a soffrire.

Come Fabio Cannavaro che per lasciare la sfiga Inter e essere ceduto alla Juventus moggiasca fece il bambino con il termometro sopra la lampadina. Non una grandissima figura, quasi una patetica fine carriera. Poi però (come per il Busacca: “No dico, ma cosa vuol dire questo?”) c’è stata la redenzione, che è stata un mondiale da capitano vero, condottiero che non ha mollato nulla.

Eppure montagne di opinionisti a quella faccia italiana avevano predetto una the end. Italia patria dei pronostici sbagliati, nel bene e nel male: “Sei nato nel 1915, beato te che non vedrai un’altra guerra. 1915 + 25 fa 1940. Scommessa persa. Anche Buffon nel 2006 aveva scommesso mettendo in ballo con un click fatturati da aziende familiari. Per il suo portafoglio erano perdite da poco, numeri digitali messi in una slot machine ma bastarono per il sottotitolo da belloccio viziato, unico merito la zoomata sulla fidanzata famosa. Però in Germania, il Buffon sprecone è tornato a fare il portiere, cioè a dispensare gesti del tutto simili al clic di un computer: istinto, ciò che fa la differenza fra uno così così e un fuoriclasse come Buffon.

E poi i Gattuso, ovvero i veri fanti di questa Italia, non i paradigmi letterari. Ce ne sono stati tanti nella grande guerra. Guerrieri contadini di una brigata qualsiasi, Sassari, Catanzaro, Barletta, Brescia, Torino, Lambro…. Per fortuna sui campi di calcio il morire è virtuale, e la trincea un prato verde, ma dove sta l’Italia vigliacca?

“Certo che con i mezzi che abbiamo…” Frase da copione censurato, l’originale era: “Con i generali che abbiamo, se vinciamo ‘sta guerra vuol dire che siamo davvero un grande esercito…” L’altro lato dell’Italia.

Chi comanda, i padri di ogni Caporetto e di ogni vergogna, anche se a volte qualcosa di buono c’è… Per esempio, in Germania 2006 quello coi galloni era (ed è) davvero uno insopportabile. Lippi era (ed è) tecnico troppo freddo per essere amato. Non ha le acque sante di Trapattoni o la pettinatura carsica di Maldini. Lippi pare poco “italiano” ma lo è sostanzialmente, per come ha saputo plasmare una materia trasformando in squadra vincente un rancore.

“Chissà che fine hanno fatto quei due lavativi…” La Grande Guerra di Monicelli si chiude così. La solita irriconoscenza verso eroi inaspettati. Eroi inattesi. Grosso fino al 4 luglio 2006 era stato più artigiano che artista. Storia sportiva qualunque, vestita da un paesaggio timido, colli che fuggono dal mare e paesi d’arte buttati a casaccio. Fabio Grosso era stato poco fino alla scena finale di Germania – Italia 2006.

Tre minuti ai rigori. Fabio è un ventiduesimo dello scarabocchio di 11 italiani e 11 tedeschi che spingono avanti il tempo come lancette di un orologio rotto. Pirlo fa il genio e la fine di quell’arte è lui, Fabio Grosso, l’italiano troppo allampanato per fare il terzino moderno, l’italiano viscido che aveva rubato un rigore agli australiani, l’italiano proprio niente di speciale che però “quella” sera riuscì a tracciare la traiettoria perfetta, l’unica che avrebbe potuto riempire “quella” rete.

“Chissà dove si sono nascosti, quei due lavativi. “ così si chiude la Grande Guerra. “Non ci credo, non ci credo” e così si chiuse l’attimo storico di Fabio Grosso, eroe altrettanto improbabile.

Umiltà e rancore. Quella squadra vinse così. Umiltà e rancore. Eccolo il colpo di sole degli italiani, messo nel punto esatto dove sta ogni Piave, ogni Nikolajewska, ogni El Alamein, ogni…

E’ che in un tempo tutto italiano uno di noi disegnò un ritratto. Non raffigurò un volto perfetto ma solo un insieme di tratti vaghi. E di difetti.

Quel tempo si chiamava Rinascimento. L’italiano era Leonardo da Vinci. E l’insieme di difetti, la Gioconda.

Questo al di là della retorica dei miraggi, qualcosa vorrà pur dire...

E allora chiudiamo con questo 2015. E sognamo, e crediamo, che ancora una volta si possa essere italiani. Lo so, i Pogba, i Tevez, sono un'altra maniera, ma alla fine su quella maglia giganteggia un tricolore...