Messi vs calcio minore: passato contro futuro

C'è il grande calcio, quello che interessa a tutti, stadi pieni (qualche volta) ascolti presunti e volti e parole ridondanti che riempiono la testa di tutti. E poi l'altro calcio, quello che chiamano minore, fatto di tribunette, poca gente, tanto entusiasmo e tanta, assoluta verità.

Il campo è uno dei tanti di periferia, capannoni sullo sfondo, tribune in legno, un suolo di polvere, terra e pochi fili d’erba. L’atmosfera è quella un po’ da festa paesana, bandiere colorate che si muovono nel vento dello sfondo, e porte modeste, messe in piedi un po’ così ma verniciate di fresco, e un nastro chiaro a tenere di là un pubblico “paesano” di curiosi e genitori.
Il posto è un sudamerica, ma potrebbe essere qualsiasi altra umanità del mondo che va pazzo per il pallone, quella passione planetaria che avvolge il calcio, da sempre.
Su quel campetto di una periferia, dentro la polvere, stanno dei bambini. Piccoli, nove anni, non di più. Uno in particolare, dentro una maglia rossoblu stile Genoa appare ancora più piccolo, troppo basso e mingherlino. Eppure, la prima volta che le sue gambe minuscole incontrano la palla, il campo si fa silenzioso, e a togliere il rumore è lo stupore della gente mentre, davanti ai suoi occhi, si leva una magia, anzi “la magia”, quella del calcio…
Il bambino è argentino, il suo allenatore lo chiama “la pulce”, perché in mezzo agli altri è davvero piccolo. Però, quando ha il pallone fra i piedi,  per gli amanti del calcio quel cosino diventa gigantesco quanto Gulliver nel mondo di lilliput.
Nel mondo al di fuori del calcio, Lionel è minuto tanto da dover fare iniezioni di ormone della crescita. La ditta del padre per un po’ contribuirà alle costose fiale, poi non riuscirà più a stare dietro alle spese cosicchè al ragazzo toccherà andare in Spagna, nelle giovanili del grande Barcellona. Qui il ragazzo continuerà a ricamare calcio, mentre la società catalana, rossoblu come la sua prima maglia, continuerà a pagare le cure. Un buonissimo investimento, tanto che la storia della pulce avrà un lietissimo fine, anzi sbalorditivo perché quel bambino, diventato adulto, troverà la forza di riempire da solo tutti gli schermi del pianeta e pagine e pagine d’inchiostro e digitali. La pulce diventerà il più grande del calcio, forse anche il più grande di sempre...
Adesso Lionel Messi è un nome dell’alfabeto di tutti, ma alla fine solo un’icona e come tutti i simboli, anche banalizzata, qualcosa di costruito dentro uno schermo. Sicuramente il Messi di oggi non è una sostanza umana autentica, perciò niente di lui sarà più vero degli attimi di chi l’ha conosciuto bambino, su quei campi lontani dalle tv, baciati solo dalla polvere della periferia.
Sì, ok, ma cosa c’entra l’autentico? In questo numero di Derby  dovremmo parlare di sviluppo, che ormai fa solo rima con denaro, e vuoi mettere nel calcio il volume di affari che muovono l’icona Messi  e il Barcellona fra merchandising, diritti televisivi d’immagine, vittorie  e altro?
Là, lui bambino al massimo poteva essere la gioia economica dei carrettini che vendevano dolci appena sotto le tribune, qualche pesos, un introito aggiuntivo per i venditori di salsicce, nulla più.
Già, qui dovremmo parlare di sviluppo... Ma se la smettessimo di intendere sviluppo solo i numeri della finanza e ricominciassimo a misurarlo invece come la moneta della fecondità, della prospettiva, del potenziale dirompente che ha  l’emozione umana quando è autentica?
Loro, quelli del quartiere di Rosario, quelli dei campetti che hanno visto Messi bambino, potranno raccontare la vera “pulce” a figli, nipoti, e questi ad altri, e altri ancora. Noi, invece, davanti al calcio televisivo siamo come gli scolari che nei film anni settanta guardavano dal buco della serratura la Fenech fare la doccia, testimoni di un’emozione indotta, fallace, che non esiste e quindi in fretta se ne va, lasciando niente dentro .
E se questo vale per Messi, figuriamoci per il calcio a scendere, quello minore, ad esempio la nostra serie A. Se valutassimo sviluppo non il conto economico pompato come un culturista con gli steroidi, ma la sostanza di valore aggiunto alla società, ci accorgeremmo che tutto questo accalcarsi al teleschermo di chi ama il calcio, tutto questo essere chiamati utenti e non persone, tutto questo sentirsi tifosi di qualcosa che non esiste se prima non è filtrata, non dà sviluppo ma assuefazione, non è cultura sportiva ma repertorio, roba che non riesce a scrivere storie perché alzi la mano chi, in tutta questa paccottaglia di calcio spezzatino, scoverebbe qualcosa da raccontare con orgoglio ai propri figli.

Come, abbiamo appena chiamato la serie A calcio minore? Lo so, con la pedanteria dei professori di matematica a questo punto in molti insorgeranno. Era ed è sempre stato altro, il calcio minore.

Da noi da sempre chiamiamo ben altre e più piccole realtà, con quel termine riduttivo…

Il calcio minore era (ed è) quello locale.

Quello che comunque, attenzione, era da sempre fra gli eventi clou, vivi, di ogni città, o quartiere. Qualche tempo fa, per la “partita”, le vie di tutte le “piccole Italie”si riempivano di biciclette, macchine, gente. Poi le strade si fermavano per vivere i novanta minuti, cioè il tempo che lo sport imponeva, e infine di nuovo si riempivano. Insomma l’evento sportivo era un polmone enorme, gigante, che con il suo respiro dava vita alla comunità. Per il calcio “minore”, tutti, nella città si mobilitavano. L’appuntamento con la partita era uno dei fulcri della domenica per la popolazione, così come per il ciclismo, o ogni altra attività sportiva locale.

Lo sappiamo, oggi è diverso. Generalmente i campi sportivi sono stati spostati in periferia, oltre le mura, come una volta si faceva con i cimiteri. La scusa è il traffico, l’intasamento, ma vista la vivacità delle nostre vie, semplicemente abbiamo spostato la vita fuori, per lasciare il centro ai suoi deserti e ai suoi silenzi.
Il calcio “reale”, “vivo”, oggi è un gioco ai margini delle città. Ma questa non è stata una scelta che è andata a discapito del calcio stesso. Ne ha solo seguito lo sviluppo. Perchè se le partite “minori” sono state portate fuori dai centri cittadini, tranquilli, negli appartamenti sono rimasti i televisori. Perché il centro del pallone, lentamente e inesorabilmente, è diventato qualcos’altro delle persone che lo giocano, del prato, degli undici, della porta, il fulcro e la molla sono ormai il segnale televisivo, l’abbonamento, la fiction.

Tutto il calcio, apparentemente, è ormai inesorabilmente entrato nel mondo virtuale. Ma attenzione, noi che comunque vorremmo dallo sport qualcosa da toccare, una cultura, non sentiamoci perdenti. Perchè. basta fare qualche metro più in là dei nostri schermi, un minuto di viaggio verso qualsiasi campo di periferia per capire che quello fra verità e finzione nello sport è una battaglia in cui probabilmente e per fortuna, ancora non ci sono gli sconfitti, e quindi neanche i vincitori. Anzi, se da una parte vedi le stesse tribune ancora vestite degli stessi entusiasmi, passione, amore e verità di un tempo, dall’altra non sanno più cosa inventarsi per tenere desti coloro che chiamano semplicemente utenti, fingendo non siano persone.

La sensazione, è che le “industrie” del calcio LCD, fra poco non potranno inventarsi più nulla. Il cosiddetto “grande calcio” probabilmente ha alzato troppo l’asticella, e se per stare nei budget ciclopici ormai è arrivato al week-end spezzatino che divide i contatti ma anche li diluisce, e per tenere viva la passione “viscerale” è ormai ai tribunali, agli odi sulla giustizia e la vendetta, dopo di questo che altro potrà inventarsi ‘sto football industriale? Nulla.
Dopo, da una parte rimarranno sempre i mille campi di ogni periferia, che hanno due doti fondamentali: la verità  e la passione. E dall’altra, non verrà più niente, e la gente lentamente ma inesorabilmente si renderà conto che il modo più attivo per godersi il calcio dentro al teleschermo sarà giocare alla playstation, che fra l’altro costa meno degli abbonamenti e sostanzialmente, finzione per finzione,  è più vera.

E dopo, spenta la consolle, magari fare qualche passo oltre il proprio pianerottolo e andare a guardarsi ragazzini che domano una palla più grande di loro e cercano di buttarla dentro una porta, esattamente come negli anni che verranno cercheranno di segnare un goal con la propria vita per   almeno una volta poter dire: ci ho provato! In fondo anche Messi un tempo faceva così, ma se qualcuno oggi ve lo raccontasse, ci credereste?